Oltre cinquemila miliardi di dollari a rischio
di FEDERICO RAMPINI
È SCATTATO il più grande salvataggio pubblico nella storia americana: la nazionalizzazione dei colossi bancari Fannie Mae e Freddie Mac, due istituti che controllano metà di tutti i mutui immobiliari negli Stati Uniti. I due giganti finanziari erano ormai sull'orlo della bancarotta. Un loro fallimento, secondo il ministro del Tesoro Henry Paulson, avrebbe "precipitato nell'instabilità l'intera economia mondiale".
Lo stesso Paulson ha ammonito che "non ci sarà ripresa economica finché non si esce dalla crisi immobiliare": una previsione sconfortante, visto che il mercato della casa continua a degradarsi. Il maxi-salvataggio di Fannie e Freddie a questo punto era inevitabile e tuttavia i suoi effetti sono controversi. Allarga di colpo i confini del settore pubblico, con una sterzata interventista quale non si vedeva dai tempi della Grande Depressione. L'America si accolla costi esorbitanti ma non trae le lezioni da questa crisi.
Gli errori che hanno portato al disastro potranno ripetersi. Ieri Paulson ha eluso le domande sul prezzo che pagherà il contribuente. La reticenza ufficiale è comprensibile: le cifre vere fanno tremare i polsi. Le perdite ufficiali contabilizzate dalle due banche negli ultimi dodici mesi sono di "soli" 14 miliardi di dollari, ma i loro bilanci sono notoriamente inaffidabili. Ben più significativo è il fatto che questi due istituti gestiscono o garantiscono ben 5.200 miliardi di dollari di mutui per la casa. Quel volume di prestiti è pari al 58% dell'intero debito pubblico americano.
Anche se si deve sperare che solo una parte di quei mutui si rivelino insolventi, resta il fatto che la dimensione della perdita potenziale è sconvolgente. Da ieri sera infatti i 5.200 miliardi di dollari entrano a pieno titolo a far parte del "rischio sovrano" che fa capo al Tesoro di Washington. Ovvero, in ultima analisi, fa capo al contribuente americano, già il più indebitato del mondo. Si capisce che a due mesi dalle elezioni Paulson abbia preferito "glissare" sui numeri reali, perché la loro dimensione è spaventosa.
Al confronto impallidiscono tutti i salvataggi pubblici della storia americana: la Lockheed sotto il presidente Nixon, la Chrysler sotto Carter, le casse di risparmio (Savings and Loans) che costarono 124 miliardi di dollari ai contribuenti nell'èra Reagan. Da quando è scoppiata la crisi dei mutui dell'estate 2007, la banca di Wall Street Bear Stearns ha avuto anche lei diritto all'aiuto governativo, ma oggi quell'operazione che a marzo costò 30 miliardi di dollari appare come un minuscolo assaggio.
Fannie e Freddie avevano già perso più del 90% del loro valore di Borsa in 12 mesi. Ancora più grave era il rischio di insolvenza su una montagna di titoli obbligazionari emessi dalle due istituzioni. E' vero che la stabilità del sistema finanziario mondiale è a repentaglio: quei bond sono stati venduti nel mondo intero, acquistati in grandi quantità perfino dalle banche centrali, inclusa la banca centrale cinese che oggi è il principale creditore degli Stati Uniti. La bancarotta di quelle due istituzioni avrebbe avuto ripercussioni drammatiche in Europa e in Asia.
L'interconnessione dei mercati finanziari ha accelerato la diffusione capillare dei titoli-spazzatura nei bilanci degli istituti di credito e dei fondi d'investimento, perfino nelle casse dei Comuni italiani. Nessuno è al riparo. Fannie e Freddie dunque erano "troppo grandi per lasciarle fallire". Ma proprio questa consapevolezza ha favorito una cultura dell'impunità ai loro vertici. Il disprezzo delle regole che dilaga da tempo in ampie zone dell'establishment finanziario, regnava anche in due istituti che dovevano gestire il credito più tradizionale.
I tempi della nazionalizzazione di Fannie e Freddie hanno avuto un'accelerazione quando sono venute a galla gravi irregolarità nei bilanci. I metodi contabili sono stati stravolti per occultare le perdite. I top manager si sono avventurati in speculazioni azzardate, con comportamenti più adeguati agli "avvoltoi" degli hedge fund. Tutto ciò accadeva da tempo. Era stato denunciato dai grandi quotidiani americani, ma ignorato dalle autorità di vigilanza. Nel 2004, per esempio, nel bilancio di Fannie Mae erano emersi "errori contabili" per 6,3 miliardi. Eppure solo ieri il governo si è finalmente deciso a commissariare le due aziende. E' un nuovo scandalo Enron, un altro colpo alla credibilità del capitalismo finanziario americano.
Da un crac all'altro, la costante è la socializzazione delle perdite provocate da manager incompetenti e disonesti. Nei tempi di vacche grasse, il top management incassa stock option e bonus stratosferici. Quando le aziende sono rovinate, il conto passa alla collettività. Si stravolge così tutto il sistema di incentivi e deterrenti che è l'abc dell'economia di mercato. Il principio di responsabilità è ormai un'astrazione. La selezione operata dalla concorrenza viene falsata. La capacità del mercato di allocare le risorse in modo efficiente, punendo le aziende decotte e premiando quelle sane, viene distorta da una perversa garanzia di ultima istanza: la promessa implicita che il governo salverà quelli che sono "troppo grossi per fallire". Quale sarà la prossima banca scaricata sulle spalle del contribuente americano?
Spalle sempre più fragili. Perché nel frattempo l'economia reale non accenna a migliorare. I pignoramenti delle case sono ai massimi da 40 anni. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,1%. Con le famiglie assediate dalla recessione, le prossime crisi finanziarie sono in agguato: verranno dalle insolvenze sulle carte di credito, e sui finanziamenti rateali degli acquisti di auto. Per l'americano medio le speranze di aiuto sono modeste. Il socialismo è riservato ai banchieri.
(8 settembre 2008)
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