Questo Marchionne pare Silvio
di Giorgio Bocca
Come Berlusconi, il capo del Lingotto è convinto che il potere debba avere mano libera. Ed entrambi sembrano stupiti quando scoprono che i sottoposti non gradiscano
(22 luglio 2010)
L'idea che il potere, in un'impresa come in uno Stato, debba avere mano libera sui dipendenti e sui cittadini è di quelle dure a morire. Il manager della Fiat Marchionne in questo è simile al capo del governo Berlusconi, entrambi stupiti e quasi delusi che i lavoratori sottoposti non capiscano, non gradiscano il ricatto del capitalismo globale: o mangiate questa minestra o saltate dalla finestra.
Appartiene alla filosofia del potere la convinzione che la legge del più forte, nel caso del mercato globale, sia anche la più giusta. Ma è un'idea di comodo, cara a chi sta al potere, smentita dalla storia, cioè dalla lotta di classe e dal progresso produttivo e sociale: se l'automazione è arrivata nelle fabbriche rivoluzionando e migliorando il modo di produrre lo si deve anche alla lotta di classe, alle rivendicazioni operaie. Marchionne è certamente un manager intelligente come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile.
Non sembra il caso di ricorrere di continuo nei rapporti di lavoro alle superiori, indiscutibili esigenze del mercato globale, cioè della facoltà che il capitale scambia per un suo inalienabile diritto: trasferire la produzione dove più gli comoda. È una pretesa inaccettabile da un paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene. Soprattutto in paesi come il nostro dove la formazione di una società industriale è avvenuta anche grazie ai privilegi e alle discipline autoritarie, anche grazie ai riarmi e ai bagni di sangue delle guerre mondiali.
Come Cesare Romiti, come altri manager e imprenditori, Marchionne è convinto che la crescita economica di un paese sia la stessa cosa della sua crescita civile e che essa sia possibile solo se si rispettano le regole fondamentali che legano il lavoro al salario e che rifiutano come utopie suicide quelle sessantottesche del più salario e meno lavoro. Ma questo rispetto delle regole non può essere una prerogativa dell'imprenditore razionale da imporre ai dipendenti immaturi che preferiscono la partita della Nazionale di calcio al lavoro, non può essere la richiesta di rinunciare nel nome della produzione ai diritti conquistati con duri sacrifici.
Anche il capitale, anche il potere capitalistico inseguono utopie come quella che sia possibile e augurabile abolire la lotta di classe. Non è così, sia che i padroni siano liberali, sia che siano comunisti come la Cina, dove i grandi balzi produttivi maoisti stanno finendo secondo logica nella ripresa degli scioperi e nelle lotte per i diritti umani.
Ha detto Marchionne: "Stiamo facendo discussioni su principi e ideologie che ormai non hanno più corrispondenza nella realtà. Parliamo di storie vecchie di trenta o quarant'anni, stiamo a parlare del padrone contro il lavoratore. Sono cose che non esistono più".
Davvero? Forse il Ceo della Fiat si sbaglia o si illude. I padroni esistono ancora, come i lavoratori che dai padroni dipendono. E per governarli occorre anche modestia, pazienza e sapersi mettere, come usa dire, nei loro panni.
Efrem
Ps. Ogni tanto un spunto di riflessione.
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