Copio bellamente dal Blog di Marco Giacosa un articolo di Romagnoli che ho divorato , una sintesi perfetta delle ragioni che ci spingono ad andare avanti ogni giorno e a scoprire cosa c'è dopo l'oggi , io l'ho adorato , spero vi piaccia
Buon Anno
Madrina
Esattamente dieci anni fa a San Antonio, Texas, comprai una maglietta con la scritta “Don’t look back”, non ti guardare indietro. Stampata su fondo nero c’era l’immagine del piccolo Anakin Skywalter, la cui ombra disegnava il profilo di Darth Fener. Per chi non conosca la saga di Guerre Stellari, il cavaliere jedi crescendo cede al lato oscuro e si trasforma nell’emblema del male.
Guardarsi indietro è sempre un rischio, anche quando il tempo è una convenzione cinematografica e scorre al contrario (dal sequel al prequel).
Il rimpianto sta in agguato perfino in un futuro rovesciato: non c’è modo di voltarsi indietro e salvarsi. Per questo ho sempre cercato di seguire il consiglio della maglietta e non mi sono mai girato. Ora mi è stato chiesto di farlo, di riavvolgere il nastro per la durata della vita di questo giornale (1999-2009) e trovare cosa?
Mi limitassi ai fatti potrei ispirarmi al replicante di Blade Runner e dire: mi sono affacciato sul cratere di Ground Zero a sei giorni dall’attacco alle Torri Gemelle e a sei minuti dall’esplosione su quello dove hanno maciullato Hariri, aprendo un nuovo fronte in Medioriente. Ho visto una nazionale italiana fare a pezzi i propri limiti e alzare la Coppa del Mondo a Berlino e ho visto l’Italbasket salire sul podio un gradino più in su del Dream Team americano ad Atene 2004.
L’ho fatto perché il mondo era lì
Ho camminato per i corridoi di una scuola dello Iowa con George W.Bush il giorno in cui annunciò la candidatura alla Casa Bianca e, non sapendo pregare, ho sperato invano che non diventasse presidente. Ho stretto la mano al Dalai Lama (e lui l’ha tenuta per cinque minuti buoni). Ho visto le torri di fango dello Yemen e quelle di cristallo di Shangai. Ho messo più di quaranta timbri sul passaporto e volato con più di quaranta compagnie aeree diverse. Ho perso i risparmi in Borsa e li ho riguadagnati nel mercato immobiliare. Ho cambiato undici case e quattro città (New York, Roma, Il Cairo, Beirut, di nuovo Roma). Ho comprato e abbandonato un numero di divani che non riesco più a calcolare. L’ho fatto per amore, l’ho fatto per lavoro, l’ho fatto perché non sapevo più cosa fare, perché il mondo era lì (come disse dell’Everest quello che voleva spiegare perché l’aveva scalato) e io pure.
Il punto è, cosa ho imparato da questo selvaggio andirivieni? Cosa posso rivelarvi perché questo articolo non sia una mera confidenza ma possa tornare, in qualche misterioso modo, utile a chi si appresta a vivere dieci anni da uomo presunto maturo, occidentale, irrequieto? Fondamentalmente due cose, mica di più.
La prima: mai fermarsi. Una sera del 2000 arrivai a Kigali, capitale del Ruanda, per intervistare un vescovo cattolico accusato di complicità nel genocidio. Era sabato, era già buio. Le strade erano polverose, le abitazioni per lo più baracche. Faceva un caldo asfissiante. Non c’era uno che stesse fermo. Camminavano tutti, più veloce che potevano. Andavano, andavano. Non c’era un locale in vista, non c’era il lungomare, non c’era un porto, non una plausibile destinazione, ma andavano. Dove?
Alla fine non ho resistito e ho domandato all’autista quale fosse la meta di tutta quella frenesia che, di meta, non sembrava averne. Lui sgranò gli occhi invasi dalla malaria e rispose: “Chief, i bersagli mobili sono più difficili da colpire”. Insieme a una frase che avevo ritagliato da una rivista inglese (“Non c’è bisogno che tu sappia da cosa stai scappando per diventare un fuggitivo”), dava una perfetta legittimazione del moto perpetuo.
Continua a spostarti e non ti impallineranno. Chi? L’età, il dolore, il conformismo, il compiacimento, la resa mascherata dall’autocompiacimento di essere arrivato. Dove?
Non si arriva mai. Specie se hai dentro la sindrome che ti spinge a buttarti dalla torre dopo averla scalata. Quando ho cominciato a scrivere sui giornali (un settimanale agricolo pubblicato a Bologna), il caporedattore specializzato in cereali mi chiese quale fosse il mio obiettivo. Mi scappò: “Vorrei fare il corrispondente dagli Stati Uniti per un quotidiano”. Era l’89. Nel ’97 avevo raggiunto il traguardo. Nel ’99 lo tagliavo. A pezzi. Me ne andavo dalla città che più ho amato, dal lavoro che avevo voluto, perché le cose che hai desiderato sono un motore, non sono una casa. Un motore, se non gira, s’imballa. Così devi trovare altri desideri, altre strade. Far tesoro di quello che incontri, aprirti la testa. Certo, la vita è Samarcanda, tu corri e lei ti aspetta alla fine di ogni tappa.
Un film che ho già visto
Me ne sono andato nel ’99 dagli Stati Uniti, schifato dal circo montato sulla vita sessuale di Clinton (letteralmente: un affar suo) e mi ritrovo dieci anni dopo in un altro Paese – per giunta il mio – dove il mestiere di giornalista si confonde con quello di cameriera ai piani: ogni giorno ci si occupa di lenzuola. Del premier, e pazienza. Ma perfino degli altri giornalisti. E fai la figura del fesso se ripeschi un ricordo da un viaggio di qualche tempo fa e chiedi: “Ma intanto il Darfour?”.
Non fermarsi aiuta ad allontanarsi dai miasmi quando si alzano, ad aver probabilmente già visto il film e sapere come finisce, a mettere le cose in prospettiva. Nessun dio ti ascolta quando preghi che non tocchi a Bush, ma una mattina ti svegli in Louisiana et voilà: il nuovo presidente è un nero con qualche idea nella testa. Mio padre, che non si è mai mosso da Bologna, un giorno del 2003, in cui passai a trovarlo e gli annunciai che traslocavo dal Cairo a Beirut, mi chiese: “A cosa ti serve?”. A cambiare. “Non ti vai bene così?”. Quelli che “si vanno bene” così sono pericolosi, credo.
Non si cerca la pace muovendosi: certo, quella si trova dentro, facendo yoga all’alba a Wilderness, Sudafrica, come a Forlimpopoli. Si cercano le ragioni degli altri, il rumore del mondo, la seconda possibilità nascosta dal paravento del qui e ora. Poi certo, resta l’agguato della fine. Vivi prima che avvenga e non provare neppure a immaginare dove ti aspetta. Un giorno del 2005 ero in Sudafrica, in una di quelle riserve piene di animali. La guida ci mostrò dalla jeep il ghepardo acquattato dietro un cespuglio. Lo spazio era immenso e in tutto quello spazio la gazzella scelse proprio quel cespuglio per andare a brucare. Il ghepardo balzò e l’uccise. Perché mai la gazzella era andata proprio lì? La guida sentenziò: “Talvolta, la morte chiama”
I buoni consigli che non ho seguito
La seconda cosa che ho imparato: nulla dura. Di solito le persone cambiano, si accorgono dell’altra faccia della realtà quando succede loro qualcosa di traumatico.
E’ un limite, ma è quasi inevitabile; solo l’esperienza insegna, a volte neppure quella. In dieci anni ho avuto gli alti e bassi delle montagne russe al Prater di Vienna. Da un anno all’altro il mio reddito si è ridotto a un quinto, è risalito, è ridisceso. Ho investito in titoli che sono diventati barzellette a Wall Street (la mia consulente finanziaria alla JPMorgan Chase è nel frattempo rimasta senza lavoro), ho comprato una casa che il costruttore non ha mai terminato perché è fallito al piano sotto a quello dove avrei dovuto stare io. Sono stato adulato dai critici. Sono stato ignorato dai critici. Ho scritto pagine in cui riportavo le ferite e altre di una leggerezza che mi pareva davvero insostenibile. Hanno fatto sempre colpo le seconde.
Passeggiando su una spiaggia di Zanzibar nel 2004, un amico americano mi regalò questa conclusione: “Generalmente il pubblico preferisce al sangue dell’autore la sua saliva. Non farti più del male”. E’ uno dei sensati consigli che ho ricevuto e che temo finirò per non seguire. Ho imparato a convivere con l’idea che ogni situazione si consolida quando sta per essere rovesciata, a non sentirmi mai certo di niente. Vale nei rapporti privati e nella vita pubblica. Le aule di tribunale per le separazioni, ho potuto appurare, sono affollate di coppie che si dividono a distanza sorprendentemente breve dal giorno del matrimonio.
Una mia cara amica annunciò che si prendeva un giorno di vacanza dal lavoro dicendo: “Domani voglio proprio riposare”. Lo fa da allora, un interruttore le ha spento la luce nel sonno. Nel corridoio dell’ospedale dove fu inutilmente ricoverata era appeso un poster con l’immagine di un tramonto e una citazione degli Atti degli Apostoli che non ho dimenticato (benché le mie frequentazioni con la religione siano nulle e non crescano con gli anni). Diceva: “Alla sera della vita ciò che conta è aver amato”. Penso di poter sottoscrivere, anche se ho combinato qualche pasticcio e non sono riuscito a dare un seguito in forma umana a nulla di quel che ho seminato.
Poi si torna dentro se stessi
In parte abbiamo la vita che ci meritiamo, in parte quella che ci tocca. E di solito, come le case in affitto in una città straniera, la prima che scegliamo è sbagliata. Volete che salvi un momento di assoluta serenità in questi dieci anni? Giugno del 2008 a Maputo, Mozambico, nella casa delle madri incinte malate di Aids. Ho visto bambini nascere in quel posto con tanta semplicità e tranquillità come non credo sia possibile altrove. Il male sarebbe stato sconfitto, loto avrebbero vissuto senza problemi, le mamme sorridevano, non un neonato che piangesse. C’era un piccolo giardino che valeva Central Park, c’era l’immensità dell’Africa e del futuro, foss’anche un altro giorno ancora.
Poi si torna sempre dentro se stessi e si dimentica. Così eccomi qui, 49 anni nel 2009, con la sensazione che si ha davanti agli orologi o ai contachilometri quando azzerano. Ho sempre cambiato le carte alla vigilia del decennale, anche quando avrei potuto (forse dovuto) dire: “Servito”. Temo lo farò ancora. Ci saranno altre montagne russe, altri divani, altre luci senza un porto. Magari dietro qualche angolo è in attesa la fine. Ma come scrisse un poeta di cui ero amico dieci anni fa, poi ci siamo perduti: “Se nulla dura, nemmeno la fine allora”.
(Gabriele Romagnoli)
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