«Posso offrirti un caffè?»
«No, grazie. Preferisco un abbraccio».
Andrebbe scritto con l'iniziale maiuscola: la donna si riferisce al biscotto del Mulino Bianco e non all’intreccio di mani e braccia attorno al corpo di un altro essere, tuttavia assecondo il doppio senso e compio il gesto rivoluzionario: mi avvicino e la abbraccio.
«Abbracciarsi è rilassante. Provate», dice Irene, da sempre anima di laboratori teatrali sparsi per la città. Lo comanda ai suoi attori principianti, come riscaldamento prima della lezione, e funziona: talvolta qualcuno arriva dritto al dormiveglia, lì in piedi, appoggiato all’altro.
Un giorno l’hanno fatto in via Garibaldi, pieno centro di Torino, allo struscio del sabato. Una specie di teatro situazionista di strada, a metà tra il catartico e l’esperimento antropologico: mescolàti tra le genti, a turno ciascuno di loro puntava uno sconosciuto e gli gettava le braccia al collo.
Sono intervenuti carabinieri, polizia, reparti speciali?
«No, però certo, tutti si stupivano, alcuni si spaventavano, altri erano infastiditi, ma tutto sommato non ci sono state reazioni violente».
Ad esempio un’attrice, donna, abbraccia l’uomo di una coppia, l’uomo è interdetto e la compagna si arrabbia. Con l’uomo. Poi si fanno vedere tutti gli altri e allora, forse, la compagna dell’abbracciato capisce e smette di essere arrabbiata.
Ad esempio un uomo, un passante, semplicemente felice di essere abbracciato, delle attenzioni di uno sconosciuto, quasi dispiaciuto quando comprende di essere nel mezzo di una scena.
Ad esempio un altro passante, un uomo, che senza farsi domande reagisce restituendo il calore del corpo, avvinghiato con gli occhi chiusi.
Tutto questo perché?
«Il contatto ci terrorizza. Invece abbracciarsi è bello».
Prendete e abbracciatevi tutti: anche se, o forse soprattutto perché, come dicono i Marlene Kuntz, per abbracciare qualcuno occorre prendere coraggio.
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