lunedì 19 gennaio 2009

FARE POESIA CON LA MDP: L'OSPITE INATTESO


Pungolato (as usual) da Jean Nonu, vinco l’inerzia e torno a firmarmi sul nostro caro blog (invero un po’ trascurato negli ultimi tempi).
Il pretesto (ma mica tanto) è “L’ospite inatteso” (The visitor), film passato all’Aurora nel week-end. Un autentico gioiello, come i deliziosi monili etnici creati e venduti da Zainab, la fidanzata senegalese, inizialmente scontrosa e anche un po’ acida, del ben più empatico Tarek; la dimostrazione che si può fare poesia con la macchina da presa, intendendo per poesia la capacità di invenzione sul piano del linguaggio (audiovisivo nella fattispecie) e attraverso quella - grazie anche alla qualità della sceneggiatura e delle interpretazioni (su tutti Richard Hopkins nei panni del protagonista Walter Vale) - emozionare, commuovere, propiziare riso, indignazione, riflessioni. (Personalmente, da spettatore come da lettore di solito pretendo più del mero intrattenimento).
È un film sincero (non ruffiano e finto come quelli di Muccino), credibile perché fatto della stessa materia della vita reale, la vita vissuta: lutti, incontri, rinascite, svolte, addii, rimpianti, sentimenti frenati dal pudore (non difficile rinvenire analogie nei destini dei quattro protagonisti sia pure tra loro così diversi). E quel senso di candido imbarazzo e di tenera inadeguatezza ricorrenti nella quotidianità. E quella comicità che è lo scarto tra il fallace modello di successo imposto dal Sistema e le intime aspirazioni dell’individuo.
Di questa regia che, con sintesi straordinaria, sa sprigionare emozioni e significati (e divertire: penso alla vendita del pianoforte), esemplificativa è la scena dell’addio in aeroporto tra Walter e Mouna (splendida incarnazione della fiera saggezza delle donne mediorientali). Lui, le lacrime agli occhi, fermo a guardarla allontanarsi verso il gate, lei, un velo di pianto, che si gira un’ultima volta (ma inquadrata a distanza, quindi una soggettiva di Walter), il rombo di un aereo e la mdp che sfoca un gigantesco drappo a stelle e strisce, così visualizzando (rendendo cinematograficamente) l’illusione e il dissolversi dell’american dream per i protagonisti (e non soltanto loro).
Il quid semantico, il lascito di questo piccolo grande capolavoro (la morale, anche, se vogliamo) sta nel ponte tra l’inizio e la fine. Nella prima scena l’insegnante di pianoforte spiega a Walter, totalmente sprovvisto di talento, che le dita sui tasti vanno tenute arcuate: per sentire passare il treno. Nell’ultima (un’inquadratura frontale), lo vediamo su una panchina della metro intento a suonare il tamburo regalatogli da Tarek (lo strumento che ha ridato ritmo alla sua piatta esistenza), e un treno sfreccia improvviso. Se non è poesia questa.

Come direbbe il mitico Rob Brezny (il geniale autore dell’oroscopo di Internazionale), il compito post visione è mettersi nelle condizioni di sentire passare il treno.

E adesso vado a procurarmi il primo film di Tom McCarthy: The Station Agent.

Gg

1 commento:

claramenteparlando ha detto...

Appassionata recensione che, ovviamente , sottoscrivo.
Nell'augurio che la dozzina di lettori di qs blog sia invogliata a vedere il film.
J.